Funnies


‘Il Ponte’, articolo di Dicembre 2010

Non serve una calcolatrice per contare le sostanze psicotrope legali, ed una di queste è la caffeina. Trattasi di sostanza che può essere somministrata in diverse forme di cui la più comune è il caffè. E qui cari connazionali in espatrio, come direbbe il Grande Bardo, casca l’asino. Infatti si dà il caso che la forma più apprezzata, per noi, sia l’espresso italiano.
Una bella tazzina rovente da ingoiare (il contenuto mi raccomando, non la tazzina) in due sorsi e poi via, verso la prossima avventura. Un botto di energia che ci sveglia/risveglia, o che almeno ci dà questa illusione.
Purtroppo l’espresso italiano, fatto come si deve, si trova in rari posti; e se l’operatore non è italiano, è indispensabile a) non parlare di caffè, bensì di “espresso” e b) dare istruzioni specifiche al caffettaro per non trovarsi una tazzina, sì da espresso, ma colma di brodo. Del prezzo dell’espresso in Danimarca parlerò un’altra volta, non appena la redazione mi avrà dato il nulla osta per usare parolacce su Il Ponte.
Come dicevo, se si vuole un espresso va evitata la parola “caffè”; infatti per i danesi il caffè è quel liquido scuro, percolato fumante ma soprattutto abbondante, al vago sapore di caffè. Generalmente lo classifico come “tè al gusto di caffè”, e datemi torto.
Se uno si aspetta emozioni forti dal caffè danese, temo che resterà deluso. Tuttavia, deve essere un potente aggregante sociale; infatti non ho mai visto nessuno in un locale con una bella brocca da litro, e scolarsela da solo; al contrario, allegre compagnie ad ogni orario -più o meno lavorativo- sì. Volendo infatti pervicacemente insistere sui meriti, non va taciuto che è un bel brodino caldo e confortante che specialmente d’inverno fa piacere, e non stupisce che una brocca possa durare un pomeriggio. D’altra parte non va dimenticato che questo tipo di brodo non è scevro da caffeina, anzi, ce n’è eccome. Per parafrasare una nota pubblicità: il danno, senza il piacere.

Ma non è solo di caffè che volevo parlare. Pochi sanno che un’altra sostanza psicotropa (legale, almeno finché non lo scoprono) è la Pizzoina. Come dalle ricerche del Dott. Simon O.N. Gary, è “(…) contenuta in larga misura in pizze e calzoni (…) è una sostanza che dà dipendenza e assuefazione”.
Ma anche qui le distinzioni sono d’obbligo. Chi ci dice che una Pizza italiana, forgiata in un vero forno a legna come da ferrea tradizione napoletana, contenga la stessa quantità di Pizzoina di una pizza-a-domicilio ananas e kebab forgiata da turchi, cotta in forno elettrico e consegnata a casa con la soprattassa governativa sui semifreddi? O peggio, quelle pizze surgelate di cui i banchi freezer dei supermercati sono ricolmi, prodotta magari da Mastri Surgelatori di pizza a Taiwan: chi mi assicura che non sia stata aggiunta Pizzoina di sintesi? Geneticamente modificata, magari.

Quando qualcuno migra dall’Italia alla Danimarca deve fare i conti con alcune astinenze, di cui le due elencate sopra sono importanti esempi. Se anche accettiamo il modo -spiacevolmente alternativo- di procacciarsi la caffeina, le cose con la Pizzoina diventano più drammatiche. Non è come in Italia, dove è naturale trovare spacciatori di Pizzoina in ogni comune e frazione: qui diventa già difficile identificare uno spacciatore autentico in una intera città; intendo gente seria, che non ti venda Pizzoine tagliate di provenienza turca o cinese.

E, visto che è Natale, mi verrebbe in mente anche un’altra sostanza: la Cappellettina, lo stesso principio attivo dell’Agnolina, la Raviolina e la Tortellina, presente in larga dose in quei manufatti tipici del pranzo del 25 nelle mie zone. Riuscirà il Nostro Eroe ad assumerla in quantità adeguata quest’anno? No perché gli anni scorsi a Natale ho mangiato aringhe crude; e l’autoconvincimento è inutile, il gusto è inappellabilmente diverso. Ricorrere ad analisi microbiologiche ed organolettiche non serve: dalla completa assenza di effetti riconducibili ad astinenza ed assuefazione, sarei pronto a scommettere che nelle aringhe, di sostanze psicotrope, proprio non ce ne sono.

Per niente pentito -semmai orgoglioso- di sentirmi un drogato, auguro a tutti Buon Natale!

‘Il Ponte’, articolo di Settembre 2010

La Danimarca è piatta come un’asse da pasta, e questo più o meno si sapeva.
Un attento osservatore potrebbe pertanto pensare che andare in bicicletta sia un paradiso. E lo è. Il fatto che un terzo dei danesi vada al lavoro pedalando lo testimonia. Un terzo è un’enormità. E’ come se 15 milioni di italiani invece che appoggiare le chiappe su un sedile e girare una chiave, prendessero un po’ d’aria fresca e pedalassero.
Certo, posso sentirmi dire “pedala tu a Perugia, L’Aquila o Sondrio”, ma se è pur vero che le pendenze qui non ci sono, c’è sempre l’handicap non trascurabile del tempo atmosferico. In Danimarca piove un giorno su due, e ugualmente nessuno ferma gli “audaci”. Talvolta c’è un freddo che farebbe ghiacciare il sangue a un leone marino; eppure, con l’equipaggiamento adatto, lo affronti.

Comunque, stabilito che “non esiste buono o cattivo tempo ma buono o cattivo equipaggiamento”, rimane un problema molto sentito: Eolo. Che non è il nano di Biancaneve, bensì il dio del Vento. Eolo, alla faccia di quel principio d’asma che una volta (a uno “Screening”, a-ehm!) gli avevano trovato, soffia come se quello fosse problema di qualcun altro. Aggiungi che non c’è neanche una montagnetta a far da riparo, basta che al dio venga un ruttino dopo pranzo che la cosa si ripercuote ai quattro angoli.

Questo incide in modo serio sui complessi calcoli a proposito dei tempi di trasporto; se devi andare al lavoro e il vento viene dalla direzione sbagliata, sono amarissimi cavoli. Il pensiero che -a logica- al ritorno il vento sarà dietro, è una patetica illusione autoinferita con il solo ed esclusivo scopo di tener duro, andare avanti e respingere il giustificato istinto di mandare tutti affa e tornare a casa sotto le coperte; infatti sai benissimo che quando sarai di ritorno c’è un’iperbolica probabilità che il vento abbia girato e soffi in direzione esattamente opposta.
Prendi la bici per andare alla stazione del treno e ci metti il triplo del tempo, anche se hai il cambio Shimano col pacco pignoni da montagna e ingrani la prima ridotta. Mentre tenti di guadagnare metri con l’acidosi lattica montante, il pedone ti sorpassa e ti guarda con disprezzo, condito con l’orgoglio della propria velocità di appiedato.
Io non sono preparato. Vengo dalla Val Padana, da noi quando tira vento sparano i fuochi d’artificio per festeggiare l’Annuale Cambio dell’Aria; per il danese le cose sono più facili, l’abitudine aiuta, ed ho pure scoperto il loro trucco: nelle giornate particolarmente ventose vanno in giro vestiti come Mario Cipollini anche se devono andare a piedi. E, ad un equipaggiamento estremamente tecnico, va affiancato il fatto che imparano fin da bambini a non fare vela, deflettere le raffiche, stagliarsi di sghembo.

Talvolta, tuttavia, càpita che il vento ce l’hai dietro. E lì si gode.
Sì. Cioè. Almeno fino a quando arrivi in stazione, dove ti trovi con un Signor Problema: stai andando ai centonovanta. Doppiare la stazione e stabilire il Record di sempre sul chilometro lanciato, ancorché corroborante per il proprio ego, è controproducente; infatti quando riesci finalmente a fermarti devi voltare la bici e riguadagnare la stazione, di nuovo in prima ridotta, portandoti dietro pure il trofeo appena vinto, facendo ben attenzione che la bocca della coppa non guardi verso avanti.
Tutto si gioca in quello che succede negli ultimi 100-150 metri prima del traguardo. Ed è qui che entra in campo l’importanza del mezzo tecnico; mi ero sempre chiesto perché, anche le normali biciclette, montassero spesso freni a disco; forse mi confondo, ma mi è sembrato addirittura di vedere dei Brembo autoventilanti, come Valentino Rossi sulla sua Yamaha.
Pensavo fosse per fare gli sbruffoni al bar con gli amici tipo “Freni nuovi, paghi da bere”. “Non fate i furbi che io c’ho due dischi così”. “Il mio Disco è più grosso del tuo”. “Sarà anche più grosso, ma il mio véntila meglio”. Cose del genere. No no. Adesso so il vero perché.

Trasportando quindi il concetto all’italian-pensiero, orientato agli Status Symbol, per noi risulterebbe che: se hai la bici coi freni a disco sei The Great Ganzo: potresti passare impennando davanti alla polizia senza conseguenze, anzi, agiterebbero palette per farti strada. Hai i freni a tamburo? Sei ancora OK, ma se devi andare in centro parcheggiala lontano così che nessuno lo noti. In tutti gli altri casi la tua bici è così scrausa e raccogliticcia che -se non vuoi fare magre figure- l’unica opzione è venderla; sperando che ci sia ancora qualcuno che se lo vuole comprare, quel cesso.

PS (Direttrice, non se la prenda se approfitto) VENDESI Belizzima Bicicletta Blu, come nuova, telaio alluminio, telefonare ore pasti 555-..

Like in many other countries, and I’m not talking about the third world, in Denmark there was a monopolist managing the wiring and communications, some sort of nordic Telekom. It’s teleKom because for the danes, you know, “C”s are for sissies.

However, changing names simply doesn’t do the trick; using more sophisticated, english-sounding, youth-friendly names helps only to get the picture of a decrepit face with a cheap lift job. But they tried, of course, so the old Telekom-whatever ISP is called YouSee, and if you want to have an internet connection, there’s just no escape.

Knowing what happens under this point of view in my homeland, I made a point in keeping quiet and not complaining, but lately things just went from bad to worst. My background made me way tolerant; despite that, they got me pissed, so I don’t really want to know how danish people feel, used to higher standards but forced to bear this kind of service whatsoever.
You see, YouSee is the typical ex-monopolist service and it feels like the counterpart are still users -as they were used to be- and not yet customers; a monopolist, given the users’ lack of options, just doesn’t give a rat’s ass. Supply and Demand, it’s that simple.
Frequent interruptions of service is the least that can happen; also high latency spikes, that is a no-go for some kinds of TCP connections that need a steady ground.

So, when it happens, you call. Get in queue, wait, grow bored, and once they answer the problem’s gone, and the Miss happily tweets “Sorry sir, my terminal says everything’s fine, have the best day ever, goodbye” CLICK. Sometimes it happens that the Miss’ name is Erik, a descendant of a proud Viking dinasty; he tweets also, but doesn’t sound as good.
Too bad terminals don’t have a memory of what happened before. Better, I’m sure they have, just why taking the trouble to go check the recent history; it’s you, the user, a mythomaniac sicko seeing things that nobody else can, and of course a complete idiot around IT and computer sciences, that might have called just because a website took 2 seconds longer to load. So, why bother?
In order to be completely honest, though, it happened once that they answered while the problem was still standing; therefore the tweeting thing “certified it” -in a way-; put things in motion and ordered the efficient techmongers army to deploy. Days later (yes, days; I said “efficient”, not “fast”) a very kind and professional technician knocks the door, extracts his fine machineries then checks plugs, cables, line to the central node, environmental interferences, checks also the water, gas and poop pipes just to be sure, ends up like “everything’s fine”; he then gathers that it has to be the modem and changes it for free (well, it’s theirs). Problem Solved, officially.
In the real world instead, the situation hasn’t changed an inch.

So, sadly, this is the state of the art; the monopoly ceased, however the effects didn’t desist. As far as I know, the last mile, that few hundred yards of copper, is a thing that other companies -living in the third millennium free market- crave to get the rights to use, or buy. Unfortunately, as it comes, they will be really free to get them with no questions asked, only prying them from Telekom’s stiff dead fingers. And it ain’t gonna be soon.

Nevertheless, there are some happy areas where you can access services from other ISPs; those so lucky to benefit from it are usually very satisfied, and they say it out loud.
I hope we are gonna be happy as well soon. In fact, we are moving, and it looks like the new house is right inside one of the happy spots. I really can’t wait.

And now I’m gonna post this.. if I’m still online :)

Farewell time:

— YouSee, See You! —

..much, much later!

FreeANT

Tech Addendum
if somebody from YouSee reads this, I want to say a big thumbs up for changing the person or team responsible for the configuration of the DHCP servers. About time, after 3 years it looks like they work now.

Good Job,
Good Job.

Considerando la grandezza media di ogni gruppo famigliare, si può tranquillamente stimare che a Copenhagen ci sia poco meno di un milione di unità abitative. Noi stiamo cercando casa e ne abbiamo trovata una di recente che soddisfa le nostre esigenze a fronte di un prezzo abbordabile.

Quella che segue è parte della risposta a una mail di mia sorella:

>  Come state? Lavorate tanto? E la casa, novità?! Il babbo di Tabby si è ripreso dallo shock di dovervi prestare 400.000 € !!!

(nota: Tabby lavora in un Kindergarten, se per caso era sfuggito)
Mah sì, bene, Tabby tiene i Pampini fuori tutto il giorno, dopo averli immersi nella botte di grasso di balena tenendoli per il tallone come Achille, ed infatti moriranno tutti di tumore alla pelle del calcagno. Poi ogni tanto mi torna a casa strinata perché si è dimenticata la crema in qualche regione di pelle o perché nel pulire vomitini lava via anche la sua crema e dimentica di “rimetterla” (e sì che si sta parlando di vomitini.. ma in danese il gioco di parole non funziona, forse è per quello).

Io lavoro molto, sono spesso fuori a piedi e in bici e sto perdendo peso, come da copione; credo che la differenza tra inizio e fine estate sia di una decina di chili, tutto sommato; e non è che -solo perché è estate- mangio solo verdurine, anzi, ho del bel bacon in scadenza, credo che i prossimi giorni sarà Karbonara-fest ;)

(nota: trovata la casa, Tabby scrive un SMS a suo papà raccontando la novità e dicendogli che ci servono 300.000 corone, tuttavia nella eccitazione le scappa uno zero in più per cui diventano tre milioni di corone, circa 400.000 euro)

Il Tabbo oltre a non essersi ripreso, sta molto peggio adesso: prima, quando erano 400mila euro, poteva essere solo uno scherzo, ma una volta chiarito l’equivoco che sono solo 40.000, teme di doverceli prestare davvero!

Per la casa era tutto fermo e stagnante fino a ieri, quando è emersa una grossa novità. Tabby deve andare al matrimonio di una ex collega, e ha chiamato al telefono un’altra ex (Monica, o più probabilmente Monika) per mettersi d’accordo sul regalo (2 minuti scarsi) e finire raccontandosi nei particolari gli ultimi mesi di vita (30+ minuti), tra cui è compreso il discorso della casa sul quale inevitabilmente scivolano. Ecco la trascrizione, più o meno accurata:

Tabby: eh sì, abbiamo trovato una casa, per noi è bellissima, molto più ampia, e perfetta per le nostre esigenze

Monika: ah figo, magari c’è posto anche per un Baby Seal! (nota: Piccola Foca, è l’appellativo con cui chiamiamo l’eventuale nostro bambino, che sto cercando di schivare come Clint Eastwood schiva i proiettili calibro 45 nei western)

Tabby: sì sì, quello è uno dei motivi per cui cercavamo di traslocare! Ci sono due stanze grandi a pianterreno: cucina e salotto; poi nonostante sia un appartamento, è su due piani: c’è una scala che porta a un seminterrato molto grande semiabitabile, ci stanno due stanze da letto, ognuna grande il doppio di quella che abbiamo adesso, e avanzano pure camere per le altre cose

Monika: bene, bene, e quindi ci stanno anche tutti i vostri computer!

Tabby: eh per forza. E poi c’è una cosa che ad Antonio piace molto: il giardinetto privato, dove fare il barbecue; c’è posto abbastanza per mettercene uno robusto, per cuocere la carne con la pietra come fa suo papà

Monika: ah davvero? bello ma.. giardinetto? barbecue? mi ricorda qualcosa..

Tabby: sì, è un piccolo giardino davanti all’ingresso della casa e, siccome dà sulla strada, proprio tramite il giardino c’è l’ingresso privato!

Monika: senti maaaa.. dove hai detto che era?

Tabby: in Vattelapescasvej, numero duecento e qualcosa

Monika: duecento e?

Tabby: duecento e non mi ricordo

Monika: hmm.. non è che per caso il soggiorno è dipinto di azzurro?

Tabby: sì, come fai a saperlo? Infatti, la prima cosa che faremo è ritinteggiare, perché lo sai che l’azzurro mi fa cag..

Monika: ..click..

Monika: (telefona a suo marito) THOMAS! NON VENDERE LA CASA A NESSUNO, CHE LA VUOLE COMPRARE TABITHA!

E così risulta che la casa è loro; c’era stato qualcuno che aveva fatto un’offerta al ribasso, loro stavano per venderla lo stesso, e quell’idiota del real estate (che stava mediando la compravendita) non ci ha detto niente.
La prima cosa che ha fatto Thomas, che dall’incazzatura gli fumavano i peli delle orecchie che non ha (i peli, non le orecchie), è stata di chiamarlo, dirgli diversi aggettivi e qualche sostantivo (“coglione”, credo sia un sostantivo), chiedergli perché cazzo tiene all’oscuro i potenziali clienti, perché stracazzo non tiene informato lui sui potenziali clienti soprattutto se sono disposti a pagare il prezzo esposto, e mettere in chiaro che la casa la vende a chi vuole lui, chiudendo la telefonata con l’equivalente danese di “vaffanculo stronzo” che credo che suoni ruvido uguale ma con le K al posto delle C.

Certo che, come si diceva, qual’è la probabilità -su un milione di case- che quella di cui ti innamori sia di una ex-collega?

Domenica alle 11:00 è venuta Louise. Ovviamente non di punto in bianco! Si è fatta precedere da preavviso qualche giorno prima, in perfetto stile danese. E allora ho chiesto a Tabby cosa dici, preparo qualcosa? Uno snack? Delle tartine? Du spaghi? (e accompagno con il gesto: sollevare il gomito destro finché l’avambraccio sia molto inclinato verticalmente, tenere la mano all’altezza dello stomaco a una decina di cm di distanza dallo stesso, in asse con l’avambraccio, ripiegare tutte le dita eccetto indice e medio che vanno tenuti a V, e roteare ripetutamente la mano lungo l’asse longitudinale dell’avambraccio, raggiungendo il fine corsa da entrambi i lati)

Lei con piena finta indifferenza fa: mah, per caso mi viene in mente, è tanto che non facciamo la pizza.. segue sorriso tirato. Vero, sarà un mese, ma speravo di scamparla più a lungo.

Allora un giorno vado a comprare quello che manca: il lievito, la mozzarella, il Pømì, e la farina nuova che abbiamo scovato: marca “Il Fornaio” che suona tanto italiano, e sottotitolo: “Kompromisløst Italiensk” che vuol dire “(prodotto) Italiano senza Kompromessi” e la K l’ho lasciata perché rafforza il concetto. Costa come la cocaina ma è molto buona, la nostra pizza ha guadagnato decine di punti da quando la usiamo.

Però mi si affaccia un problema: la farcitura.
Io non faccio pizze tonde, tendo a sfruttare tutta la superficie della teglia rettangolare da forno; delle quali tuttavia ne abbiamo solo due, che vanno benissimo per noi ma il sopraggiungere del terzo ingenera delle limitazioni: una delle due teglie deve ospitare una pizza “condivisa”.
Tabby è allergica ai latticini, e la mozzarella una volta portata a temperatura di regime tende dispettosamente a diventare anarchica, disubbidendo in particolare alle regole territoriali, per farla breve sbrodola dove non dovrebbe.
Per cui la pizza condivisa, a logica, dovrebbe essere la mia.
Ma mi oppongo con forza all’idea: è vero che io sono di gusti difficili, ma qui si pone un problema che travalica e diventa una questione etica. Infatti Louise non è italiana, e alla proposizione “pizza con prosciutto e ananas” invece che reagire con:
– “EW”
– “che schifo!”
– “dov’è il water!”
– “come i tedeschi e gli spaghetti con la marmellata!”
– “ehi, perché non aggiungere pure la nutella!”
lei dice:
– “hmm, buona!”

Al momento lei non aveva ancora stabilito i gusti, ma io non volevo correre il rischio che liquami di ananas venissero a contaminare la mia purissima Pizza alla Napoletana con Eccesso di Acciughe, nossignore.
Per cui prendo la decisione: una teglia tutta mia e basta, l’altra contenente numero due pizze, rettangolari, metà superficie ciascuna: una per Tabby e una per Louise.
Per principio di uguaglianza, loro avranno due ulteriori pizze della stessa dimensione, da infornare dopo le prime.

Il pericolo ananas è stato poi scampato, perché entrambe hanno optato per una “normale” pizza peperoni, cipolla, bacon e ragù.

No comment.

Aprile, tempo di dichiarazione dei redditi.

Non so come sia oggi la situazione per il lavoratore dipendente in Italia, ma se non sbaglio c’era quel modulo che ti veniva consegnato dal datore di lavoro che poi dovevi pensare tu ad integrare ed inoltrare. CUD? Massì, il CUD.

Qui no, non lo devi fare; indipendentemente dal fatto se sei dipendente o autonomo, l’ufficio delle tasse ti manda il tuo estratto conto, dicendoti se sei a debito o a credito.

Se sei a debito, vai sul sito e paghi con la VISA o altro metodo a te più congeniale.
Se sei a credito, appena possibile ti fanno un bonifico sul conto corrente bancario.

Se non ricordo male, invece, in Italia la sollecitudine ha due pesi e due misure, a seconda del caso; se sei a debito devi correre a pagare; se sei a credito puoi -a tuo carico- fare domanda di liquidazione, che ti arriverà con molta calma; oppure puoi decidere di tenerli lì nel caso l’anno prossimo tu sia a debito, dove farai il conguaglio e poi si vede chi deve cosa a chi. E nel frattempo i tuoi soldi fanno caldo nelle tasche di qualcun altro. D’altra parte, se sei stato così coglione da pagare di più, non sarà mica colpa di chi li ha presi.. e ringrazia che non ti fanno pagare per il lavoro extra di conservare i tuoi soldi per qualche mese/anno.

Qui sotto si trova parte del mio “estratto conto” tasse per il 2009:

Tasse 2009

(cliccaci sopra per vederlo)

Dunque, l’azienda per cui lavoro ha versato troppo, per cui ero a credito di 2987,52 corone danesi (circa 400 euro) .

L’ufficio delle tasse mi ha comunicato che me le renderanno appena possibile, facendomi appunto un bonifico. Ma siccome loro sono stati indebitamente in possesso di soldi che appartenevano legittimamente a me, ovviamente me li restituiscono aggiungendo gli interessi. 0,6% che non è un granché ma è sempre meglio di quel che ti danno certe banche. Ho scritto “ovviamente” ma certe cose che dovrebbero essere effettivamente normali e dovute, per come siamo stati abituati nella nostra patria di origine mi stupiscono ancora.

Totale: 3005,00 corone. Poffarre, hanno fatto un arrotondamento di 44 centesimi -a mio danno-! Ma, sono certo, troveranno il modo di ridarmeli l’anno prossimo. Sono meno di 6 eurocent, posso sopravvivere senza.

Non ho altro da dire su questo argomento (Forrest Gump)

‘Il Ponte’, articolo di marzo 2010

Titolo: Barista, vorrei uno Screening, con ghiaccio

Mi rendo conto che sto andando di nuovo sullo scatologico, prometto che starò più attento dalla prossima volta, ma questa lasciatemela dire, perché nelle mie considerazioni rientra nella categoria delle differenze tra noi e i danesi.

Qualche mese fa abbiamo accennato alla Dolce Euchessina. Che è un lassativo, niente di più e niente di meno. Tuttavia, caro lettore, non so da quanto tempo manchi dall’Italia, ma nelle ultime decadi le cose sono cambiate. Il bisogno di lussi invade anche il mondo della parola e costringe gli esperti di marketing aziendale a fare salti mortali per dare ai prodotti nomi e descrizioni ricercate. E così vai in farmacia a comprare un “Favoritore Metabolico con Effetto Mucosa-Rilassante e Stimolatore Algoritmico di Peristalsi”. Cos’è? Un lassativo. Ma vuoi mettere? La parola lassativo è così demodé, è così retrò. Non vorresti mai che qualcuno ti udisse pronunciarla in pubblico, o peggio davanti a uno che se ne intende: il farmacista.

Tempo addietro c’ero cascato anch’io. Compravo un integratore, un prodotto micidiale che integrava tutte le tue necessità alimentari, tutto quello che non assimilavi attraverso il cibo. Aveva un nome poderoso: “ONE”, abbreviazione di ONE-A-DAY, un nome studiato per colpire l’immaginario. C’era dentro di tutto, vitamine, sali minerali, polisaccaridi vegetali, metalli più o meno preziosi. Non voglio indagare su quello che ONE ha fatto al mio corpo in quel seppur breve periodo, anche se probabilmente il mio corpo -che ragiona meglio di me- tramite canali che non meritano approfondimenti ha espulso il surplus di vitamina B12 e zinchi clandestini non essenziali, il tutto senza usare il Favoritore Metabolico. Più che altro mi piaceva il nome, e non serve Einstein per capire che se si fosse chiamato UNO-AL-GIORNO sarebbe rimasto a fare la muffa sullo scaffale della farmacia.

Nomi magniloquenti, definizioni roboanti, è un argomento che affascina; tuttavia non c’è abbastanza spazio per approfondire, per cui ne parleremo tra qualche mese. Di certo c’è che i nomi di prodotti e servizi sono indiscutibilmente più efficaci se espressi in una lingua misteriosa. E questa lingua arcana, l’inglese, per i danesi a) non è esattamente una cosa enigmatica e b) è una necessità, perché per esprimere certi concetti quelle parole proprio gli mancano. Per noi invece, proprietari di uno dei vocabolari più ricchi del mondo, il fascino dell’impenetrabile mistero è uno dei meccanismi che spingono a rinunciare ai patrii vocaboli. Esempi? Questo articolo l’ho scritto su un Computer che però è anche un “elaboratore”. Perché mi sento meglio dopo uno Screening o un Check-up e non è esattamente la stessa cosa dopo una banale “visita medica”? Con le Notizie Flash ho la netta impressione di risparmiare più tempo che con il “notiziario rapido”, o mi sbaglio? Aprirà prima i battenti un esercizio con la scritta Opening Soon o uno col cartello “prossima apertura”? Una cosa è certa, infine: un Meeting è innegabilmente meno palloso di una “riunione”.

Questa cosa fa riflettere perché, in fin dei conti, che tu compri un Favoritore Metabolico, la Dolce Euchessina, l’esotico Guttalax o un comune lassativo, l’effetto è sempre lo stesso: fanno ca.. ehm, Direttore? Si può dire quella parola su ‘Il Ponte’?

‘Il Ponte’, articolo di dicembre.

Titolo: Tu Scendi dalle Stjernerne

E’ Natale. Sursum Corda, è nato Gesù e la tradizione dice che siamo tutti più felici e più buoni. Atmosfera, luci, auguri, tutte ‘ste cose. Ed anche l’ateo più accanito, per il quale Natale significa giusto ferie e gozzoviglia, non può non associare il clima festoso con l’inno del titolo, che tipicamente immaginiamo cantato a cappella dall’abside di una cattedrale, così che risuoni (rimbombi?) meglio, sia dentro che fuori, dove il passante sotto la neve si riscalda il cuore. Con cosa esattamente? Con le Stjernerne. OK, lasciami dissentire.

Noi italiani siamo viziati, abbiamo una delle lingue più armoniose e musicali del mondo. I francesi non saranno d’accordo. A loro giudizio è la loro, la lingua più bella del mondo. Ma c’è anche da dire che i francesi non fanno testo: per loro sono francesi anche la Sagrada Familia, il Colosseo e la Porta di Brandeburgo, e questo è il motivo per cui sono bei monumenti. Pensano addirittura che sia francese anche la Corsica; non si sono mai chiesti come mai il dialetto che parlano là è praticamente sardo.

Comunque. Possedendo, dicevamo, una delle lingue più eccetera eccetera, mi permetto di schizzinare, giocosamente mi raccomando, sulla musicalità della lingua parlata nella terra che ci sta sotto i piedi.

Tanto per cominciare, sicuramente fa piacere se ti dicono che sei attraente, ma non sono così certo dell’effetto se ti senti dire “quanto sei Tiltrækkende!”. Non sono nemmeno sicuro di quanto sia romantico dire alla tua innamorata che i suoi occhi sono belli, appunto, come Stjernerne. Certo, dopo questa, lei può ripagarti dicendo che sei Smuk come il sole, per esempio, così siete pari. Passando dall’Astronomia alla Farmacologia, avrei qualcosa da dire su Elsker, che mi fa pensare più ad un prodotto da banco che effettivamente all’amore. Tuttavia se la tua innamorata ti da un po’ del suo Alka-Elsker magari fa bene anche per l’imbarazzo di stomaco. Si chiama effetto placebo e dicono che funziona. E che dire delle nozze? Sono una gran bella cosa, Don Abbondii a parte, ma cosa ne vogliamo dire se ci coinvolgono in un bel Bryllup, che nella giusta pronuncia diventa Brüllup? Mi permetto anche una licenza linguistica, so che il verbo non esiste, ma mi diverte pensare alla ragazza piangente che asserisce: “nessuno mi Brülla!” o all’innamorato: “Cara, vuoi Brüllarmi“? Potrebbe suonare addirittura un po’ osé.

Qualche equivoco, poi, completa il quadretto. Al supermercato pago sempre con la carta di credito, e la domanda di rito se voglio in più del contante o se pago giusto l’importo, lo sappiamo tutti, è På Beløbet. Sempre tutto bello attaccato, perché fare pause tra una parola e l’altra è troppa fatica; sicché diventa un rotondo Póbelöbet. E non c’è una volta che riesca a star serio: mi salta sempre in mente il ritornello di Tutti Frutti di Elvis Presley: “A bop Póbelöbet, a lop pop boom!”. Qualche volta vedi che mi scappa, la canto in faccia alla cassiera; e il prossimo articolo lo scrivo dalla Neurodeliri (Neuro-vanvid).
Geniale invece un catalogo arrivato qui a casa qualche tempo fa. Scarpe. Sko in danese, gliela perdoniamo perché assomiglia molto all’inglese Shoe, hanno solo scopiazzato male e sbagliato a trascrivere la H, e che sarà mai. Dicevo; scarpe di moda, grande stile, ottima classe; prezzo modico, sì certo, se guadagni uno zilione al mese.
In copertina, sopra un paio di gran bei (Smuk) modelli, il titolo a corpo 200 recitava: “SKO MODE“. Evviva la sincerità!

Seriamente, tuttavia, su alcune cose hanno ragione. Fa più impressione un atteggiamento Krigerisk rispetto all’omologo Guerresco, e secondo me incute più timore un Kriminel di quanto faccia un Criminale; stessa radice, ma quella K, eh, ne fa di differenza.

E’ infine mia opinione che portare il pattume al bidone dell’immondizia in Italia dia decisamente molta meno soddisfazione che non farlo qui, quando lo porti in un posto che si chiama “lo SKRALDESPANDEN“. E gettarlo dentro così, con cattiveria, magari anche con un grido Krigerisk. Tiè, Pattume! RAAARGH!

Pensaci, la prossima volta che esci di casa col sacchetto nero. Magari lanciamo una MODE.

God Jul til alle!

I sogni ed io: un match risibile. Raramente ne ricordo uno, dei pochi che ricordo ci sono spezzoni indefiniti, caroselli senza senso, senza capo né coda. Una volta su mille ne capita uno che abbia senso. Una volta su un milione ne capita uno bello chiaro, distinto, particolari definiti come se fossero veri. Mai così lungo, comunque. E siccome mi è successo qualche notte fa ed ho avuto la prontezza di fermarlo su carta, va beh, su file, lo racconto.

Tutto comincia sulle colline di Volta Mantovana, in un campo su un dolce declivio, coltivato a cavoli. Non sono un agronomo, ma paiono proprio cavoli.

Sono lì con due amici che non ricordo con precisione micrometrica ma sono maschio e femmina, ed ho il sospetto che sia una coppia di Ceresara (MN) che conosco; hanno un’azienda di informatica con la quale ho lavorato parecchio in passato, erano miei fornitori.

C’è uno strano sistema di irrigazione nel campo, sono delle condotte a sezione rettangolare, tipo 30×40 (come quelle dell’aria condizionata/riscaldamento nei magazzini delle aziende) sospese in qualche modo a 1 metro da terra. Vado a vedere da vicino, sembra perfettamente chiusa. Ma ad un certo punto arriva una ragazza con un amico più giovane, e stanno correndo *dentro* la condotta; la parte superiore, che sembrava metallo, si richiude al passaggio delle loro gambe. Quando si avvicinano ed io vedo che sono d’intralcio mi scosto e dico “sorry”. Controllo il coperchio e lo mostro agli altri, sembra un effetto speciale, sembra che sia liquido al tocco, ma a lasciarlo stare appare proprio metallico.

Con quei due amici qualche giorno dopo, per qualche ragione, andiamo a sciare a Cortina d’Ampezzo, un posto che conosco solo parzialmente e dove non andrei di mia spontanea volontà quando a due passi (alpini) di distanza c’è il Gruppo Sella, che invece è come casa mia.
Quando arrivo mi rendo conto che ho gli sci e i guanti ma ho dimenticato la tuta e gli scarponi. Allora dico agli altri andate pure mentre vado a rifornirmi: i vecchi scarponi, poverini, hanno fatto il loro servizio e sarebbe anche ora di cambiarli mentre per la tuta mi arrangio: posso comprare una giacca a vento e sciare coi jeans (tanto non cado mai :)). Magari anche un paio di ghette così la neve non mi entra negli scarponi.

Arrivo in un negozio di articoli sportivi e chi ti trovo? La ragazza che correva nella condotta, che lì fa la commessa. E’ una ragazza molto carina, caschetto biondo, occhio estremamente azzurro, proprio per niente bomba di sesso ma molto dolce. Mi riconosce immediatamente, viene verso di me e si mette a parlarmi in inglese, senza accenti.
Allora le spiego che sono italiano, che però abito a Copenhagen e che quel “sorry” mi è venuto fuori di getto, perché quando succede qualcosa di imprevisto e improvviso prorompo in un “fuck”. Per dire “cazzo!” devo pensarci (questo è vero).
Lei è eccitatissima, mi chiede tremila cose, rispondo. Poi passiamo ai miei acquisti. Lei è molto servizievole e mi fa provare gli scarponi, trovo dei Lange blu mezzi da gara, esattamente lo stesso modello che avevo prima e che mi hanno dato enormi soddisfazioni. Invece della giacca a vento mi propone una “maglietta” che è una di quelle cose supertecnologgiche da gara che sembra una T-shirt attillata ma tiene più caldo di un eskimo. C’è anche il quadrato di stoffa col numero sopra, già pronto. E’ un 6, bello grosso.
Poi la giornata diventa farraginosa. Ricordo solo che senza gli impedimenti aerodinamici di una ingombrante giacca a vento, sfreccio libero e veloce come non mai.

Il sogno continua che io e la Pigga (*) abitiamo a Copenhagen.
Stiamo tornando in Italia per visitare le famiglie e abbiamo trovato un nuovo mezzo di trasporto piuttosto efficiente. E’ una corriera che vola. Cioè, fuori città vola, anche se non a una velocità pazzesca; anche in centro città può, ma deve volare ai 50, e occhio agli autovelox.
Subito dopo la partenza (decollo? niente aeroporti, decolla verticalmente come un Harrier) il capocorriera, con spiccato accento di Sorrento, ci comunica che non possiamo volare direttamente in Italia, ci sono degli ospiti che devono imbarcarsi a Mosca e quindi dobbiamo fare una (piccola) deviazione. Esticazzi, e dirlo prima?

Comunque. Abbiamo un sacco di tempo ed ognuno sembra rilassato e per niente incazzato.
In effetti non è un brutto posto dove stare: fuori sembra una corriera, quando ci entri invece sembra più una nave da crociera, con i ponti scoperti con le sdraio, la ringhiera e i camerieri con i vassoi di cocktails con le olive e gli ombrellini Made in Thailand.

Io e la Pigga siamo in un salone all’interno, scherziamo, ci esercitiamo col russo in vista dei nuovi ospiti che imbarcheremo, con voce stentorea pronunciamo parole tipo Pravda, Doblonski, Pordna, Tovarish, Gostilna (questa non c’entra, è serbo-croato credo, ma chi se ne frega) e ridiamo come pazzi.
Poi lei si immerge in un libro ponderoso, che deve essere un libro dell’ammore perché ogni tanto sospira; io decido di andare a prendere un po’ d’aria fuori.
Esco sul ponte di tribordo e chi trovo? La Biondina. Di nuovo. Inaspettatamente (ma appare molto naturale) mi salta al collo, mi bacia e mi racconta cosa ci faceva a Copenhagen, che si è trasferita anche lei, che era piena di ammirazione per quello che avevo fatto io e che *doveva* provarci.
Mi racconta duemila cose e le ore passano, ad un certo punto vado ad avvertire la Pigga che sono fuori con questa amica, lei dice OK e continua a leggere il suo libro con occhio acquifero, torno fuori. La Biondina mi chiede della maglietta da sci, le dico meraviglie, si continua parlando di cose improbabili. Poi andiamo in giro per la nave, come il film Titanic, però non siamo innamorati, l’unica sensazione è la spensieratezza, completa ed assoluta.

In un intermezzo cerco di andare a catturare una gallina. Per accedere alla prua c’è una strana porta, due ante che si chiudono a V, con la punta verso la prua. Quando qualcuno si avvicina, le ante si schiudono verso fuori per far passare l’umano, ma finiscono per lasciar scappare le galline, che non perdono l’occasione per scorrazzare raminghe sulla nave. Cioè, sulla corriera. Sono galline con le penne color bronzo, che però vicino alla pelle sono bianche. Si narra che le penne di quelle galline valgano una fortuna, ma solo se sono strappate da una gallina in punto di morte, e ne puoi strappare solo una, come se lo spirito della gallina si trasferisse nella penna.
Ma ste stronze di galline sono vive e vegete, morente nessuna, e figurarsi se proprio io sono la persona giusta per metterle nello stato di cui sopra. Quindi le raccolgo, più o meno amorevolmente, e non senza qualche difficoltà le riporto verso la prua, dove la porta a V le chiude fuori.

Torno nel salone principale e trovo la Pigga con una sua vecchia amica (che in realtà ha la faccia di una mia vecchia collega, Francesca Qualcosa) e la Pigga le ha raccontato tutte le vicissitudini attraversate nella nostra vita insieme. L’amica, nonostante il racconto sia probabilmente durato ore, non sembra accoppata.

Viene ora di pranzo; non so come possa essere pranzo con tute quelle ore passate tra dentro, fuori, libri, galline, racconti e Biondine, ma forse siamo solo partiti molto presto al mattino. O forse è usanza che sulle corriere-navi-volanti si pranzi alle sei del pomeriggio.

Non so come, visto che la scena precedente era all’interno, ma adesso siamo tutti fuori. Raccolgo la Pigga e la Biondina, che nel frattempo si sono conosciute ed hanno proposto di pranzare entrambe con me; ci mettiamo nella coda (ressa?) davanti alle porte del salone da pranzo. E’ una ressa mai vista, mi ricorda un incubo davanti ai cancelli per il concerto di Sting a Verona nel 1988.

Questo non è un sogno: ricordo che c’era un caldo bestiale, la folla spingeva da tutte le direzioni, avevamo ancora 2 ore prima dell’apertura. Ho alzato un braccio in aria per dissipare un po’ di calore e non riuscivo più a rimetterlo dentro, la folla si era mangiata anche quel piccolo spazio.
Sono rimasto così piacevolmente colpito dall’esperienza che da allora la musica dal vivo non mi ha mai più visto.

Siamo in coda davanti alla sala da pranzo. Mal comune mezzo gaudio, mi dico. Quando aprono le porte, notiamo però che ci sono due tavoli già occupati; sono grandi tavoli rotondi con solo due persone in ognuno: in uno c’è un mio Zio con la moglie, nell’altro ci sono i miei amici, quelli di Volta e della sciata.
Sui tavoli ci sono dei piatti ovali da un metro e mezzo, stracolmi di fette di salame mantovano, quello del contadino; ai tavoli, appena notano la ressa, difendono il loro privilegio tirandosi giù mezze dozzine di fette di salame, non si sa mai che l’orda approdi e le faccia fuori. Vista dal loro punto di vista, la parola “orda” non rende nemmeno giustizia.

Io penso che le persone già sedute siano di prima classe e che quindi abbiano il diritto di sedersi prima degli altri. In realtà un cameriere mi rivela che non esiste nessuna classe; il sistema di sicurezza che protegge la sala prima di pranzo è efficientissimo, tuttavia se qualcuno è così astuto da riuscire ad eludere la sorveglianza ed insinuarsi, costoro rendono un grande servizio mostrando le falle di sicurezza che così possono venir corrette. Il premio, in cambio, è che possono restare in sala da pranzo anche se non è ancora aperta al pubblico.

Dopo pranzo tutti, e dico tutti, hanno pance rotonde e lo stuzzicadente che sbuca al lato della bocca. La Pigga è dentro con la Biondina e stanno entusiasticamente parlando di qualcosa, probabilmente di me: va bè, è un sogno, è ANTcentrico, è perdonabile.

Io esco, sempre sul ponte di tribordo (non ricordo un ponte a babordo, e d’altra parte è una corriera, quanto larga vuoi che sia?). Mi godo la brezza.
Un rombo crescente annuncia qualche evento non previsto. Penso a un iceberg. In aria? E se anche ci scontriamo cosa si fa? Si affonda? Voliamo, perdio! Vorrà dire che se proprio proprio atterriamo, andiamo in carrozzeria, una mano di vernice e poi si va.

Niente iceberg. Dal fondo del ponte, accompagnato dal rombo sinistro arriva Nerone su una biga trainata da sei cavalli apparentemente imbizzarriti. Vicino a me, un centurione romano sbuca dal nulla e si para in mezzo. E’ un uomo imponente e statuario, con addosso l’armatura leggera con tanto di elmo col pennello. L’unico particolare è che l’uomo è nero di pelle, ma è un sogno, in fondo.
L’uomo si para davanti alla biga, e con solo un cenno della mano calma i cavalli e ferma la biga. Nerone ringrazia, profondendosi in discorsi su come la Gloria di Roma sia stata Costruita su Uomini come il Centurione che lui aveva la Fortuna di, eccetera.
Poi il centurione con un altro gesto fa imbizzarrire i cavalli di nuovo, indirizzandoli stavolta verso la porta del salone.
Nerone è contrariato da questa decisione, non gli piacciono i saloni, penso.
E dev’essere vero perché non ringrazia più.

Quando la biga entra, scoppia un putiferio; apparentemente sono tutti molto incazzati con Nerone, e la Pigga più di tutti, tant’è vero che il forchettone da barbecue che gli trovano conficcato in bocca (che all’autopsia determinano essere il colpo mortale), è opera sua.

Nel sogno non arriveremo mai in Italia, la pressione interna mi ha convinto ad alzarmi ed a raggiungere il water senza por tempo in mezzo.
Così imparo a bere birra di sera.

E adesso una domanda: cosa vorrà dire?

Ciao
ANT :)

(*) La Pigga. Eh, la Pigga. La Pigga rappresenta la più importante storia dell’ammore di ANT quando era in Italia: senza nulla togliere alle altre persone che mi sono state vicine, questa non è una fidanzata bensì LA fidanzata. Una ragazza bella, dolce, innamorata ed allo stesso tempo dinamica e volitiva, anche molto complicata; la sua presenza ha creato una delle più difficili e intricate storie, una cosa che meriterebbe un romanzo ponderoso come quello che lei leggeva nel sogno; una cosa che vale la pena vivere e che se dicessero domattina ricominci, firmo.

Sempre per ‘Il Ponte’, articolo di settembre.
Post-postato e pre-datato :)

Parlerò di “tak for sidst”: se non sai già cos’è consiglio di leggere prima questo

Ai bambini buoni la dolce Euchessina..

“..e a quelli cattivi? Che spingano!” seguito da risate malefiche. Era il tormentone di noi ragazzini, quando ancora un “tormentone” non si sapeva cosa fosse. Come Cesare Ragazzi che si era messo in testa un’idea meravigliosa e prometteva capelli a tutte le palle da biliardo. Come il Metano ti dà una mano o Calimero, il pulcino nero. La Mucca Carolina, con quel ca-ca che allittera così rotondo, che tuttavia per avere i punti necessari per farla tua dovevi comprare un container di Formaggino Mio.
Ora, alzi la mano chi non ha mai fatto propria una delle frasi che seguono; che sia tra amici, in ufficio, in situazioni serie o facete. Non esiste sporco impossibile! Ma chi sono io? Babbo Natale?!. Abbiamo l’esclusiva!. La Coop sei tu, chi può darti di più. L’uomo Del Monte ha detto Sì! Per l’uomo che non deve chiedere… mai! Falqui, basta la parola (e daje coi lassativi). “E che, c’ho scritto Giocondo?!” successivamente variato nel “Jo Condor” della Ferrero, e c’è ancora qualcuno che lo dice sbagliato. “Sempre più in alto…” con Mike Bongiorno per Grappa Bocchino, e anche lì, mamma le allusioni. “Oh, è Lavazza. Più lo mandi giù e più ti tira su” sostituendo Lavazza con la cosa che stai bevendo o mangiando al momento. Il famigerato “Prevenire è meglio che curare”, sarebbe un dentifricio ma io sono sicuro di averlo usato in più di una riunione strategica col mio staff. “Io ce l’ho profumato”, l’alito ovviamente. “E la pancia non c’è più” (anche se è difficile, dopo aver mangiato un container di Formaggino Mio). “Fatto!” “Già fatto?!” dalla pubblicità delle siringhe Pic Indolor, l’uso si spreca tuttora. La RAI col suo “Di tutto. Di più.”. “Potevamo stupirvi con effetti speciali..” usato in più di una occasione, magari al termine di una presentazione, per ristabilire un contatto rilassato con la platea. Ed anche la campagna anti-AIDS “Se lo conosci, lo eviti. Se lo conosci, non ti uccide.” riferibile a qualunque situazione o anche a persone, ad esempio qualcuno con un grave problema di alitosi.
Se dici a un italiano che Pensi Positivo, o che Laura non c’è, se parli di Sapore di Sale o di Watussi e Abbronzatissima, se imprecando invochi la Maremma Maiala, se nomini uno Scarrafone o -per i meno giovani- un Sarchiapone, quello sa cosa intendi.

Ora, il discorso è. Come fai a spiegare queste cose a un danese? Nel sondaggio pubblicato su queste pagine qualche numero fa, appare chiaramente che la grande maggioranza degli italiani è qui per motivi sentimentali. Ed io faccio parte del gruppone, condivido la quotidianità con la mia vichingotta e talvolta mi imbatto in questo problema linguistico.
Ci sono parole o espressioni, che vengono spontanee e naturali, che potrebbero simboleggiare una situazione; sarebbero spontaneamente e naturalmente recepite da qualcuno con il tuo stesso patrimonio; se ti scappa qui invece, in qualche modo le devi spiegare. Se di fronte a una scelta obbligata parli di mangiare minestre o saltare finestre magari si capisce, tuttavia se sentenzi qualcosa tipo “enten så, eller Pomì”, ho i miei serissimi dubbi che funzioni.
Poi ce n’è una tutta da provare: qualcuno ti chiede se il capo che indossi è nuovo; prova a rispondere “nej, vaskede med Perlana”, e goditi con calma il festival delle fronti aggrottate. Ma non fare il bullo: è più o meno quanto era aggrottata la tua, e di sicuro la mia, la prima volta che ti hanno ringraziato senza apparente motivo, con il dubbio lacerante di aver fatto qualcosa che tuttavia non ricordi assolutamente: “tak for sidst”.

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