Qualche giorno fa, girando per il centro a piedi, ho avuto una strana sensazione. Sai quelle cose che non puoi descrivere ma che accendono dei campanellini nella testa. Sulle prime non ci ho badato, ma con un po’ di ritardo i campanellini hanno attirato la mia attenzione e ho realizzato. Erano suoni insistenti di clacson.
Devo aprire una piccola parentesi.
Il traffico di città, a Copenhagen, è estremamente quieto. Intanto ci sono decisamente poche automobili private, e comunque il rumore più irritante che si può sentire è una macchina che sgomma al semaforo, ma spesso trattasi di turchi con VW Passat modello 1976, ribassato, alettonato, minigonnato e cerchiinlegato, che non hanno capito che per orizzontalizzare le danesine non bisogna sgommare ma saper cucinare italiano.
Ogni tanto capita di sentire un colpo di clacson, e dico “un colpo”, intendendo una frazione di secondo, e probabilmente chi ha premuto il centro del volante non è stato un Danese, per i seguenti motivi:
1) i Danesi sono refrattari all’uso del clacson in generale. Quando chi ti precede è un impedito, attendi con pazienza e senza sonore bestemmie, con la rassegnazione di chi ne sa molto di filosofia Zen. Proprio non ci pensi: è il destino, e alla prossima svolta andrà meglio.
2) sulla strada, il rispetto del codice è degno di nota, e la volontà di agevolare il traffico travalica anche la tua fretta dannata di arrivare. In pratica, diciamocelo, manca la materia prima: non c’è nessuno a cui suonare.
Chiusa parentesi.
Ebbene, sento suoni insistenti di clacson; principalmente uno, e poi tanti altri nel coro.
Impossibile, dico fra me e me. La barbara usanza di attaccarsi al clacson ai matrimoni è una cosa che non può aver attecchito anche qui.
Cerco qualche segno nel traffico che possa spiegare.
Che ne so, qualcuno che ha parcheggiato l’auto di traverso nel centro di un collettore a tre corsie, qualcosa insomma di veramente serio.
Poi lo vedo.
Un camion, del tipo grande ma senza rimorchio, telonato con sponde; i teloni sono avvolti e lasciano scoperti i lati e il retro. Cartelli grandi come lenzuola (aspetta, SONO lenzuola) con scritto “FRI” campeggiano sui lati.
Ecce Sonatore.
E dietro, sul cassone, una masnada di giovinastri che schiamazza. Taluni addirittura con megafono.
Le sponde sono indispensabili, e capiremo presto perché.
Io invece non capisco ancora. Vedo questo camion passare, l’autista che col clacson intona un rap, i giovinastri schiamazzanti salutano auto, pedoni e ciclisti dicendo cose irriferibili (non perché sono brutte ma perché non le capisco), tutti sorridono e salutano di ritorno con trasporto.
Mi adeguo.
Al prossimo incrocio ne vedi un altro, e un altro, e quando i camion stracolmi si incontrano fra di loro come spettacolo è ancora più divertente.
Le automobili che il camion incontra suonano allegramente il clacson in risposta e poi proseguono sulla loro strada, felici di aver finalmente usato un dispositivo che è montato di serie ma che generalmente gli sfasciacarrozze, dopo una lucidatina, rivendono come “non usato” ai costruttori.
Un grosso punto interrogativo sulla mia testa rimane, tuttavia.
Arrivo a casa e chiedo a Tabby di spiegarmi cosa ho appena visto. Spiegazione.
Succede che alla fine di un corso di studi di 10 anni, prima del ginnasio, gli studenti affittano un camion, ci attaccano gli striscioni con la scritta “FRI” (free, ovvero “liberi!”) imbarcano una cassa di birra perché non si sa mai, e partono dalla scuola girando per le strade di Copenhagen.
Destinazione: le case di ognuno di loro. Dove si fermano una ventina di minuti, mangiano, bevono, imbarcano un’altra cassa di birra perché non si sa mai, e poi via a casa del prossimo.
Non avevo bisogno che Tabby mi raccontasse di quando lo ha fatto lei per capire perché, soprattutto verso sera, le sponde del camion siano quantomai utili.
I Danesi hanno un rispetto quasi assoluto per le regole; ma quando ci sono tradizioni come queste, vengono rispettate con la stessa assolutezza. Mancava poco e anche le macchine della polizia suonavano il clacson..